18 Mar Il nostro spazio privato in tempi di Coronavirus

La privacy in tempo di Coronavirus (mettiamolo maiuscolo in ossequio alla sua straordinaria imperatività), è paragonabile ai diritti umani in tempo di colpo di stato: zero.

Ai posti di blocco ti fermano e ti costringono a giustificare la tua presenza sulla pubblica strada. Se questo evento viene ormai digerito dalla maggior parte degli italiani ben consapevoli della propria indisciplinatezza, si tratta di qualcosa che sembra fare piazza pulita delle eccezioni. Per esempio: sei un /una novantenne? Devi stare buono a casa tua. Non importa se sei emula della nonnina che ballando il tip tap è arrivata sul podio di Italia’s Got Talent. Vieni considerato un esserino fragile sull’orlo della fossa. No, non è contemplata l’eccezione.

Che poi viene da chiedersi: ma se fino a ieri un ultrasessantacinquenne non prendeva la pensione perchè veniva considerato ancora in grado di lavorare, com’è che oggi è inserito nelle fasce a rischio? Sono domande destinate a rimanere senza risposta.

Ormai ai posti di blocco sistemati un giorno sì e uno no all’ingresso del mio paese , tra i tutori dell’ordine e i cittadini si è instaurata un’intima e reciproca conoscenza delle rispettive abitudini, carattere e patologie in corso.

“Scusi, ma voi non potete stare in due in macchina, dovete uscire uno per volta. E poi, mi scusi, lei deve indossare la mascherina e sua moglie deve stare sui sedili dietro” L’uomo non capisce, tenta di ribattere:” Noi viviamo insieme…” Ma il vigile è inflessibile, e all’uomo verrebbe da spiegargli che con la moglie dormono abbracciati e si baciano “a spatola” come spiega Margherita Buy nel film di Verdone “Maledetto il giorno che ti ho incontrato”. Poi desiste, e il giorno dopo escono separatamente, per poi ritrovarsi (di nascosto) a casa dopo.

Qualche volta il tutore dell’ordine si incuriosisce un po’: “Dove va?” “Dallo psicologo” “Ah sì, è indispensabile?”

Ora, se questa non è una violazione bella e buona della propria sfera personale, non so cosa lo sia.

Cosa si deve rispondere? “Sa com’è, sono depresso e ho ideazioni suicidarie” ?? Presto o tardi, il povero malcapitato si sentirà rispondere: “Ah, sì, e prende qualcosa?” “Beh, attualmente sto usando il Lyrica” “Ha provato con Entact?” “Per un periodo lo Zoloft, ma mi girava la testa…” E così via, con il conseguente strombazzare delle macchine in fila, che evidentemente si dimostrano incapaci di apprezzare una conversazione alla Woody Allen. Hanno fretta, e ci sta da chiedersi dove debbano andare tutti, così di corsa. Non saranno tutti medici e infermieri!

Forse lo stesso vigile, dall’alto della propria autorevolezza, potrebbe anche farsi saltare i nervi, e sparare multe a raffica a tutti coloro che non sanno apprezzare il valore del dolce far niente, dal momento che a lui tocca stare per strada e, oltre alla normale amministrazione, sobbarcarsi l’onere di far valere un nuovo, anche se mitigato da modi gentili, stato di polizia. “Stattene a casa, tu che puoi”, e vaglielo a far capire com’è difficile rispettare appieno questa consegna, se a casa ti aspetta un marito in canotta e calzini che ciondola tra il divano e il frigo! O ti tocca gestire due marmocchi urlanti, che fino a ieri venivano consegnati alle otto del mattino, con estrema goduria, alla scuola d’infanzia del quartiere… si dovrebbero spiegare troppe cose ed entrare in particolari troppo intimi. Come anche, nell’animo di ciascuno, c’è in fondo il legittimo desiderio di menar le mani e di rendersi utile, invece di starsene buoni buoni a guardare le mattonelle di casa. Ma, anche questo pensiero appartiene al proprio mondo interiore, e alla ricerca di senso che ciascuno di noi vorrebbe dare alla propria vita.

Meglio tacere, e tenersele per sé queste cose.

D’altra parte ci sono modi di interloquire con il proprio prossimo che ho sempre considerato invasivi: per esempio l’allocuzione “ Che fai a” (Che fai a Natale, che fai a Capodanno, che fai a Ferragosto e così via) può risultare fastidiosa per il vedovo che ha i figli in Australia o per la single appena rinnegata dalla famiglia d’origine. Rispondendo, bisognerebbe entrare nei particolari, ma questo, però, esporrebbe il privato al pubblico. Quanto questo può essere minaccioso?

Anche un semplice”come stai” può essere una domanda a cui è difficile rispondere con sincerità. “Che ti devo dire, tiro avanti!” (deduzione: è un depresso sfigato, meglio lasciar perdere), “Benissimo, sto da Dio!” (“ Mio Dio, che borioso…comunque lo invidio, io sto da schifo”).

Adesso si deve dire qualcosina in più, per non rischiare di essere considerati superficiali o, peggio, insensibili alle umane sofferenze. Qualcosina, ma non troppo. Per esempio:“Sai com’è, non posso più vedermi con l’amante” è eccessivo.

Ma tant’è, siamo in tempo di guerra, e, si sa, la guerra richiede dei sacrifici, primo tra tutti rinunciare alla privacy. Sì, quella cosa che fino a ieri ti consentiva di tenere per te quando e come far passeggiare il cane, andare a trovare la suocera e incontrarti al bar con gli amici, in questo ordine, o in quello che diamine pare e piace a ciascuno.

Invece ora c’è persino un controllo sociale, tanto che dal balcone del condominio vieni additato al pubblico ludibrio se esci una volta di troppo.

Diciamolo francamente, da tre settimane a questa parte, nessuno ha più una vera e propria privacy, nonostante il fatto che ognuno se ne sta dentro casa per la maggior parte del tempo.  Eppure la privazione della libertà personale ora è più preziosa della sua legittima espressione. Questi sono i paradossi in tempi di coronavirus.

Forse la sospensione dei diritti della moderna democrazia arriva in un periodo in cui tutti li davamo per scontati, insieme con l’accettazione dell’ottica per la quale un po’ di salute va ben sacrificata in nome del profitto. Ora le democrazie europee, e non solo, dovranno rivedere l’intera struttura della propria visone del mondo, e i singoli esseri umani sono chiamati a non sottostare più ai vecchi paradigmi in cambio di un po’ di buona vecchia privacy, che, in qualche caso, assomiglia un po’ troppo al grido di una parte del popolo della seconda repubblica :”Facciamo un po’ come c… ci pare!”

 Il fatto è che la parola “privacy” si è un po’ svuotata di senso, come del resto tante parole del nostro vocabolario. Diciamolo in italiano : privato. Ecco una bella parola italiana. Privato significa sfera personale, intima. Con questa parola vogliamo indicare il nostro giardino segreto, cui appartengono fatti, pensieri, emozioni che non desideriamo condividere con nessuno, e per nessun motivo al mondo. Uno spazio sacro ed inviolabile. Il limite per gli altri. “Dove vuoi entrare tu?? Non se ne parla, fai un passo fuori “. Privato è: il mio cerchio magico, quel territorio dove solo io posso stare e di cui io solo possiedo la mappa.

La tutela del privato è uno dei migliori tesori di una nazione democratica, ed è invece assente nei regimi totalitari.

Il problema è quando questa solida cultura di protezione dei confini personali si sovrappone all’individualismo. Quando si sostituisce totalmente allo spirito di comunità. Quando diventa egoismo personale. L’ “IO” che assurge a imperativo categorico e dimentica gli altri io che lo circondano. Per questa via, allora, anche il ragionamento “io esco, tanto il virus prende agli anziani” diventa deizzazione del privato ed esclusione del pubblico, di quella “cosa comune” a cui già gli antichi Greci, nell’idea della Polis, avevano dato dignità e valore.