18 Jul L’esperienza del confine

Voglio trattare sinteticamente il concetto di confine in riferimento al nostro campo di coscienza e al modo in cui il nostro sistema nervoso reagisce alla percezione della vicinanza/lontananza in termini di sicurezza/pericolo. La qualità della neurocezione si costituisce nell’infanza. Diverse sono le variabili che predispongono ad uno squilibrio percettivo: genitori invadenti; madri simbiotiche; il non saper toccare/accarezzare del caregiver di riferimento; deficit o eccesso nell’accudimento ( per esempio un biberon dato come un tappo) Tutte le più importanti esperienze costitutive riguardano l’esperienza di confine. La risposta motoria ed emotiva che diamo al contatto con l’altro ripete "in loop il modo in cui siamo stati toccati. Pensiamo alla reazione di ritiro dello psicotico in relazione ad una paura non reale nel qui ed ora. Oppure, all’opposto, alla tendenza a non proteggersi abbastanza in presenza di una rimozione della paura. Sono entrambi importanti alterazioni della percezione del confine, all’estremo di un continuum che, nella persona sana, viene percorso in modo flessibile. Il confine, inteso come limite del mio spazio da salvaguardare e, all’occorrenza, difendere, deve essere presente nella vita di relazione, come ambito nel quale è possibile un movimento verso il mondo/via dal mondo. Il nostro movimento, infatti, può essere compiuto in sicurezza solo se ci percepiamo in un campo definito: più il confine è compatto, saldo e presente, più possiamo sviluppare doti come la predisposizione al cambiamento, l’empatia e il coraggio di rischiare. Anche la recente esperienza Covid ha cambiato per alcuni la percezione del senso di sicurezza. Ciò che prima della pandemia era considerato un confine naturalmente valicabile come abbracciare un figlio o i propri amici, è diventato un vero e proprio segnale di pericolo immediatamente codificato come tale nel nostro sistema nervoso. Anche in questo caso, chi ha potuto contare su un Io sufficientemente flessibile e forte, ha attraversato indenne (o quasi) il concetto di distanziamento...

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24 May Costellazioni Familiari Somatopsicodinamiche

Che cosa sono le Costellazioni Somatopsicodinamiche © Ho ideato le Costellazioni Somatopsicodinamiche in base ad una mia personale ricerca compiuta attraverso lo studio e la conoscenza delle due diverse metodologie e dei loro punti di contatto. Le Costellazioni Somatopsicodinamiche sono uno strumento che si inserisce in una idea nuova dell’agire preventivo e del fare prevenzione. Chi è interessato può approfondire la base teorica del M.I.B.M. (Modello di Intervento Bidimensionale Multilivello), da me ideato circa dieci anni fa in quanto responsabile della prevenzione pre e post-natale presso l’Istituto Federico Navarro, illustrata nel mio libro “Nati dalle acque” . In parole semplici, il M.I.B.M. – i cui principi sono anche accennati nel nostro blog (http://www.cinziacatullo.com) - delinea due livelli di prevenzione, uno basato sulla presenza di un rischio, l’altro su una esigenza di tipo evolutivo. In questa sistematizzazione ci siamo richiamati all’idea di Ecologia Profonda (vedi gli scritti di Arne Dekke Eide Naess, filosofo ed ecologista) che include tra i diritti umani anche quello della “realizzazione del Sé”, laddove il Sé viene concepito in sintesi con la Natura e la Coscienza Globale del pianeta. Il percorso quindi si rivolge a tutti coloro abbiano il desiderio profondo di una crescita personale in relazione al proprio punto di elaborazione circa i legami familiari presenti e passati. Non si rivolge invece alle persone che, soffrendo di determinate patologie, abbiano l’esigenza di intraprenderne la cura. Ripeto: la guarigione delle psicopatologie si ottiene attraverso la risposta psicoterapeutica. Fatta questa importante precisazione diciamo che le Costellazioni familiari sono rappresentazioni del campo di influenza di una famiglia in senso allargato, possono essere fatte in gruppo o individualmente, e sono state ideate da B.Hellinger, filosofo, teologo e psicoterapeuta tutt’ora vivente, sulla base di un pensiero sistemico-relazionale. La Somatopsicodinamica è la Metodologia di lettura delle patologie, che è alla base della psicoterapia corporea messa a punto dal...

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02 Mar Perché la speranza non serve

Perché la speranza non serve (Ovvero come non sopravvivere in tempi di pandemia)  Da molto tempo ormai si sente parlare di speranza. La speranza che tutto si risolva bene, che tutto possa tornare “come prima”, che un uomo forte ci conduca fuori dal tunnel. Letta in questo modo, la speranza non è l’immaginazione di altri mondi possibili, ma l’addormentamento delle coscienze. E’ la perfetta rappresentazione del pensiero unico : c’è un solo mondo possibile, quello conosciuto e raccontato con un amplificatore proprio come nei film di fantascienza dove un leader carismatico non fa altro che ripetere fino alla nausea da un grande schermo che quello è il mondo reale, che quelle sono le soluzioni, che quelle sono le condizioni, e che tutti devono crederci. E’ come stare a teatro, dove l’attore chiede una sospensione del giudizio allo spettatore, lo spettatore deve crederci e basta, deve credere che quelli che camminano e parlano del palcoscenico siano davvero  i personaggi rappresentati. Ma tutto si basa su un patto: tu devi credere che questa rappresentazione sia realtà e per tutto il tempo della rappresentazione. E allora tu puoi solo sperare che andrà a finire bene, perché a quel racconto ti sei affezionato e ti identifichi nella storia. In realtà tu non puoi niente, è il regista che ti porta fin dove vuole lui o fin dove un racconto già scritto ti conduce. La speranza non è creatività. Non dà scelta. E’ limitata ad un solo orizzonte, mentre invece ce ne sono molteplici. Siamo in gabbia perché speriamo. Perché aspettiamo un lieto fine. Siamo in sala d’attesa. La speranza presuppone il concetto di attesa. Se aspetto qualcosa, perdo di vista il presente. Quello che potrebbe dare forza (contrariamente a quanto possa sembrare) è abolire la categoria della speranza. Potremmo sostituire la parola speranza con la parola fiducia? Fiducia nella vita stessa? La fiducia presuppone...

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19 Feb La teoria del livelli dalla prevenzione al lavoro traspersonale: da bi a tri-dimensionale

La teoria del livelli dalla prevenzione al lavoro traspersonale: da bi a tri-dimensionale Si assiste oggi ad una proliferazione di offerte nel campo della crescita personale. Per chi non ha esperienza e capacità di lettura, è difficile scegliere il percorso più adatto. Questo non solo perché ci sono iniziative di dubbia qualità e spessore professionale, ma anche a causa della totale assenza di chiarezza in tale ambito. Già da molti anni ho messo a punto una teoria denominata “Modello di Intervento Bidimensionale Multilivello” (vedi bibliografia). In questa teoria ho tentato di sistematizzare in modo organico gli obiettivi e le strategie di un serio lavoro di prevenzione nella società, partendo dal concetto di benessere e non di malattia. In sintesi questi studi vogliono offrire un modus operandi agli operatori sociali ai diversi livelli di intervento (infanzia, gestazione e nascita, maternità e paternità consapevoli, formazione e sviluppo delle risorse umane), ma anche una possibilità di orientamento per gli utenti. Già avevo evidenziato la necessità di distinguere due dimensioni di intervento: una dimensione di cura e di prevenzione del rischio in fasce cosiddette “deboli” (come per esempio adolescenti vittime di plagio, lavoratori mobbizzati, operatori affetti da burn-out , famiglie con portatori di handicap e fragilità di diverso tipo) dove l’intervento deve essere sostenuto da protocolli sanitari specifici e personale specializzato; una dimensione di sostegno in periodi di crisi, come ad esempio in presenza di separazioni o lutti familiari, in cui è possibile rintracciare il filo d’oro dell’opportunità di crescita  e riorganizzazione della propria vita; qui l’intervento è mirato ad ampliare la consapevolezza e ad offrire possibilità di scelte realizzative (professionali o affettive). In questo secondo livello rientrano tutte le attività di counseling ad opera di psicologi che abbiano conseguito questo tipo di preparazione. A queste due, si aggiunge ora, nella mia teoria, un’ulteriore dimensione, che è quella verticale, evolutiva e...

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24 Jan Il bramito del cervo

IL BRAMITO DEL CERVO (Percorsi evolutivi, lavoro sull’ego e narcisismo sociale) Premessa Tra le varie discipline, oggi, vanno creati ponti. E’ finito il tempo degli arroccamenti, delle divisioni e dei compartimenti stagni. La scienza e la filosofia devono dialogare con la storia e con la medicina.  Ebbene io penso che anche la psicologia debba aprirsi e costruire connessioni significative. Secondo me potrebbe acquisire un valore aggiunto se si confronta con quella che Steiner chiamava “Scienza dello Spirito”. Dobbiamo partire dall’idea che il cammino di crescita sia anche un cammino evolutivo. Ha un’anima. (1) Se questo è vero, però, è vero anche il contrario.  Mi spiego meglio: nella mia esperienza ho troppe volte osservato persone impegnate in percorsi spirituali i cui promotori sono del tutto disinteressati alle condizioni psicologiche di chi a loro si rivolge.  Così, è molto frequente che un individuo immaturo, che non abbia consapevolezza dei propri blocchi psicofisici (per la mia scuola si parla più correttamente di livelli somatopsicologici), finisca, nella migliore delle ipotesi, con l’entrare in confusione. Nella peggiore, assistiamo alla completa perdita della realtà. Una strada di crescita spirituale, che sia aconfessionale e laica o ancorata ad un credo, ha bisogno di basarsi saldamente sulla pratica quotidiana. Oggi si parla molto di energia: siamo esseri incarnati, abbiamo l’assoluta necessità di incanalare correttamente la nostra forza vitale e di tradurre in opere, e in relazioni umane, il risultato della nostra evoluzione. Questa è la vera sfida dei nostri tempi, fatta di continui aggiustamenti, autoanalisi, ricadute e ripartenze. E’ necessaria una dote principalmente: quella dell’umiltà. I - Il lavoro sull’ego in quanto fardello di cui liberarsi In questo articolo propongo un approfondimento specifico sul tema dell’ego. Il lavoro sul proprio ego è il fondamentale pilastro di ogni strada di crescita. Nella accezione accolta nella varie scuole tradizionali, da quella taoista, a quella buddista, a quella Vedico-tantrista, con ego non si...

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17 Apr Pandemia e riprogrammazioni evolutive

Voglio provare a immaginare quali e quanti cambiamenti avverranno in noi nelle fasi successive a quella attuale. Da psicologa, sto provando a ricavare dai miei algoritmi simbolici alcune degenerazioni patologiche del tutto nuove, legate al trauma che stiamo vivendo oggi, ma, anche, e sinceramente me lo auguro, le mutazioni dal punto di vista dell’evoluzione generale, addentrandomi anche negli aspetti comici che inevitabilmente contiene ogni tragedia umana. Ma, potrei anche dire: ogni tragedia. Perchè, per sua natura, la tragedia non può che essere solo ed esclusivamente umana. Non esistono tragedie in natura, ma solo eventi imperturbabilmente necessari (è così che immagino un Dio, oggettivo, necessario, imparzialmente geometrico). E la legge dell’amore? Forse dire che Dio è amore, mi dico, non significa quello che siamo abituati (e condizionati) a conoscere dell’amore. Siccome l’intelligenza superiore che ci comprende non risparmia nessuna infelicità al genere umano, la legge per la quale “tutto è amore” ovvero l’unità è amore, deve per forza alludere ad un codice sconosciuto nel quale ognuno dovrà provare a riprogrammarsi. Non possiamo toccarci La prima vittima del grande movimento mondiale è il contatto: non possiamo toccarci. E per un bel po’ sarà interdetto l’abbraccio, la stretta di mano, i due bacini che siamo abituati a darci quando prima ci incontravamo. Come se quei bacini avessero un significato. Ve li ricordate? Due sfioramenti frettolosi, e spesso automatici, fatti come per dovere. “Ehi, siamo amici, io sono affettuoso, e anche tu, non è così?” , era il silenzioso sottinteso del codice umano legato all’incontro con l’altro, indipendentemente se quest’altro fosse un amico, o un tizio presentatoci ieri. In quel gesto automatico ci ho sempre trovato un che di routinario e di rispondente alle leggi del bisogno. Un bisogno di inclusione, certo. E di appartenenza. Spesso eseguito in modo riluttante. Ho spesso sentito l’altro (o l’altra) irrigidirsi...

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04 Apr Il Mito di Edipo:una traccia patologica generazionale

La storia: Laio, re di Tebe, poco dopo le nozze con Giocasta, riceve da un oracolo la predizione che un eventuale figlio, nato da queste nozze, lo avrebbe ucciso. Per questa ragione Laio, dopo la nascita del figlio, decide di sbarazzarsene. Dopo varie traversie, il bambino viene adottato dal re Polibo, che gli dà il nome di Edipo. Edipo, una volta cresciuto, riceve la predizione di un Oracolo di essere destinato ad uccidere il proprio padre e a sposare la madre. Per sfuggire a questo destino, Edipo si allontana da quella che crede la propria famiglia. Durante il viaggio verso la Beozia incontra il carro su cui viaggia Laio, il suo vero padre, che gli intima di cedere il passo. Poiché Edipo si rifiuta, l’auriga di Laio lo colpisce con un bastone e gli ferisce il piede con una ruota. Edipo, allora, uccide tutti gli occupanti del carro ivi compreso Laio. Quando giungerà più tardi a Tebe, Edipo troverà la città a lutto per la perdita di Laio, ucciso mentre si stava recando a consultare l’Oracolo in merito alla Sfinge, un mostro pericoloso che divorava chiunque gli passasse accanto e non sapesse rispondere al suo indovinello. Vista la situazione, il reggente di Tebe, il cognato di Laio, decide di offrire il trono e la mano della propria sorella Giocasta, a chi avesse saputo rispondere a tale indovinello liberando la città dalla presenza minacciosa della Sfinge. Edipo dà risposta all’enigma (“Quale essere cammina al mattino su quattro zampe, su due a mezzogiorno e su tre alla sera ed è tanto più debole quante più zampe ha?”). La Sfinge viene sconfitta e la città liberata, ma il vaticinio si compie: Edipo sposa la propria madre, dopo aver ucciso il proprio padre. Una volta appresa la verità, Edipo si acceca e la madre,...

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24 Mar Critica della paura

Da più parti, in questo periodo, si sente ripetere questo ammonimento:”Non bisogna avere paura”. Questo perchè è ormai accertato che l’emozione paura è in relazione con lo squilibrio del sistema immunitario e con il suo indebolimento. Ora, se questo è perfettamente vero, è anche vero che la cosa più sbagliata da fare con una persona impaurita è dirle:” Non devi avere paura!” Da quel momento quella persona, non solo continuerà ad avere paura (la paura, come qualsiasi altro sentimento, non obbedisce ai comandi della neo cortex, ovvero della nostra razionalità) ma, da quel momento, avrà anche “paura della paura”. E allora? Se vogliamo sciogliere le nostre paure, la prima cosa da fare è accorgerci di averle, non certo reprimerle. Ci sono due tipi di paure: la paura sana, quella che giustamente ha il diritto e il dovere di essere ascoltata e seguita. Potremmo chiamarla la paura consigliera. Questa ci permette di tutelare e proteggere la comunità a cui apparteniamo.E’ il giusto timore, per esempio, di essere contagiati e di danneggiare noi stessi e gli altri.  Ci induce a prendere precauzioni (stare in casa, distanziarci dagli altri etc.). Può generare momenti di ansia, di preoccupazione e di depressione in modo transitorio e legato alla realtà che stiamo vivendo nel qui ed ora. Cessa una volta che è cessato il pericolo. 2.  Il panico, quella paura incontrollabile e viscerale, che sale dalla pancia e ci pervade, ci possiede, e genera angoscia; ha una radice antica in noi, è qualcosa che ci abita da sempre. Forse si tratta di vissuti infantili, delle paure dei nostri genitori, quelle che ci hanno trasmesso senza volerlo. Sono messaggi del tipo “Là fuori c’è pericolo” oppure “Il mondo è cattivo”.Oppure potremmo aver conservato informazioni di altre epoche storiche, quando c’era il pericolo di morire di fame, o per una banale influenza....

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22 Mar Tre madri, tre figlie  e una fiaba

Si tratta di tre donne (pazienti di un trattamento  Somatopsicologico) che per un motivo o per l’altro, non hanno avuto la presenza di un padre. La prima: Sonia, dopo svariati mesi di lavoro, si rende conto di non accettare la sensazione che la propria madre l’abbia sempre rifiutata. Ha sperimentato una “morsa” a livello del torace, dopo un lavoro di ammorbidimento del collo. In questa morsa ha potuto sentire tutto quello che era stato rimosso da sempre: un sentimento di dolore a cui non riesce a dare spiegazione, di cui non si era mai accorta, impegnata com’era a costruire una realtà di apparente benessere. Con tutte le sue azioni, il suo modo di interagire e di spiegare agli altri come stanno le cose, di descrivere sé stessa e la propria vita, dimostra la volontà di nascondere a sè stessa questo rifiuto (1) ed edifica continuamente la  presenza di una madre immaginaria. In un certo senso, la “impone”. Anche se vive esperienze in cui palesemente non viene amata e rispettata, le capovolge in una specchio deformato, dove il risultato è sempre lo stesso: l’altro è salvato e giustificato, come salvata e giustificata è la figura materna.Questo tentativo di conservare l’immagine di una madre “a tutti i costi”  buona, è legato ad una reiterazione: la bambina , un tempo, ha salvaguardato la propria possibilità di sopravvivenza creando un simulacro. Il vedere oggi quanto la madre abbia fallito nell’accudimento e nel contatto, la porta ad attraversare le paure infantili. Si rende conto che l’adulta di oggi non ne può venire distrutta. La verità emerge, e libera una parte di Sonia che era sempre rimasta agganciata ad un falso sè. Proprio liberando la morsa nel torace, si rende conto che fino a questo momento ha esercitato un controllo sulla propria spontaneità, rimanendo irrigidita per relegare nell’inconscio (e nella...

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18 Mar Il nostro spazio privato in tempi di Coronavirus

La privacy in tempo di Coronavirus (mettiamolo maiuscolo in ossequio alla sua straordinaria imperatività), è paragonabile ai diritti umani in tempo di colpo di stato: zero. Ai posti di blocco ti fermano e ti costringono a giustificare la tua presenza sulla pubblica strada. Se questo evento viene ormai digerito dalla maggior parte degli italiani ben consapevoli della propria indisciplinatezza, si tratta di qualcosa che sembra fare piazza pulita delle eccezioni. Per esempio: sei un /una novantenne? Devi stare buono a casa tua. Non importa se sei emula della nonnina che ballando il tip tap è arrivata sul podio di Italia’s Got Talent. Vieni considerato un esserino fragile sull’orlo della fossa. No, non è contemplata l’eccezione. Che poi viene da chiedersi: ma se fino a ieri un ultrasessantacinquenne non prendeva la pensione perchè veniva considerato ancora in grado di lavorare, com’è che oggi è inserito nelle fasce a rischio? Sono domande destinate a rimanere senza risposta. Ormai ai posti di blocco sistemati un giorno sì e uno no all’ingresso del mio paese , tra i tutori dell’ordine e i cittadini si è instaurata un’intima e reciproca conoscenza delle rispettive abitudini, carattere e patologie in corso. “Scusi, ma voi non potete stare in due in macchina, dovete uscire uno per volta. E poi, mi scusi, lei deve indossare la mascherina e sua moglie deve stare sui sedili dietro” L’uomo non capisce, tenta di ribattere:” Noi viviamo insieme…” Ma il vigile è inflessibile, e all’uomo verrebbe da spiegargli che con la moglie dormono abbracciati e si baciano “a spatola” come spiega Margherita Buy nel film di Verdone “Maledetto il giorno che ti ho incontrato”. Poi desiste, e il giorno dopo escono separatamente, per poi ritrovarsi (di nascosto) a casa dopo. Qualche volta il tutore dell’ordine si incuriosisce un po’: “Dove va?” “Dallo psicologo” “Ah sì, è indispensabile?” Ora, se...

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