17 Apr Pandemia e riprogrammazioni evolutive

Voglio provare a immaginare quali e quanti cambiamenti avverranno in noi nelle fasi successive a quella attuale. Da psicologa, sto provando a ricavare dai miei algoritmi simbolici alcune degenerazioni patologiche del tutto nuove, legate al trauma che stiamo vivendo oggi, ma, anche, e sinceramente me lo auguro, le mutazioni dal punto di vista dell’evoluzione generale, addentrandomi anche negli aspetti comici che inevitabilmente contiene ogni tragedia umana. Ma, potrei anche dire: ogni tragedia. Perchè, per sua natura, la tragedia non può che essere solo ed esclusivamente umana. Non esistono tragedie in natura, ma solo eventi imperturbabilmente necessari (è così che immagino un Dio, oggettivo, necessario, imparzialmente geometrico). E la legge dell’amore? Forse dire che Dio è amore, mi dico, non significa quello che siamo abituati (e condizionati) a conoscere dell’amore. Siccome l’intelligenza superiore che ci comprende non risparmia nessuna infelicità al genere umano, la legge per la quale “tutto è amore” ovvero l’unità è amore, deve per forza alludere ad un codice sconosciuto nel quale ognuno dovrà provare a riprogrammarsi.

Non possiamo toccarci

La prima vittima del grande movimento mondiale è il contatto: non possiamo toccarci. E per un bel po’ sarà interdetto l’abbraccio, la stretta di mano, i due bacini che siamo abituati a darci quando prima ci incontravamo. Come se quei bacini avessero un significato. Ve li ricordate? Due sfioramenti frettolosi, e spesso automatici, fatti come per dovere. “Ehi, siamo amici, io sono affettuoso, e anche tu, non è così?” , era il silenzioso sottinteso del codice umano legato all’incontro con l’altro, indipendentemente se quest’altro fosse un amico, o un tizio presentatoci ieri.

In quel gesto automatico ci ho sempre trovato un che di routinario e di rispondente alle leggi del bisogno. Un bisogno di inclusione, certo. E di appartenenza. Spesso eseguito in modo riluttante.

Ho spesso sentito l’altro (o l’altra) irrigidirsi se i miei baci venivano effettivamente stampati sulle guance, e non dati all’aria. MI è venuto in mente il baciamano dei nobili cicisbei, che dovevano nel settecento seguire un rigido cerimoniale comprendente il divieto assoluto di appoggiare le proprie labbra sulla mano della dama.

Il manierismo moderno applica il cerimoniale ai baci e agli abbracci privi di contatto di molti (forse la maggioranza?) dei nostri incontri. Sono affettati e affrettati.

E che dire della stretta di mano? Ha origini antichissime. Quasi 4 000 anni fa, più esattamente nel 1800 a.C. ,durante la celebrazione del nuovo anno, il monarca babilonese doveva realizzare un cortese atto di sommissione davanti al Dio Marduk . Questo atto consisteva in dirigersi verso la statua del suddetto dio e, in segno di rispetto, stringere la sua mano. Quest’azione, che originariamente significava  trasferimento o acquisizione dei poteri, si è poi trasformato in un patto di pace. In Europa i Signori di famiglie differenti, usavano stringersi l’avambraccio per confermare che non si avessero armi bianche nascoste nella manica (e sicuramente questa possibilità di nascondere un micidiale pericolo è molto attuale, anche se non si tratta di armi, ma di piccoli virus insidiosi). Diciamolo: è stato un gesto tra uomini, precluso alle donne soprattutto nella tradizione musulmana. Anche prima di averlo letto, ho sempre sospettato che la stretta di mano avesse dei retaggi di esibizione di virilità: nel linguaggio corporeo è il biglietto da visita per sondare l’affidabilità. Infatti la mano molle indica una persona con una labile identità, ma anche sentirsela stritolare, non ci predispone favorevolmente nei confronti dell’altro.

Insomma, chi va a pensare ai veri significati contenuti nei nostri quotidiani contatti?

Siamo assuefatti al compimento di piccoli rituali ormai completamente vuoti di qualsivoglia significato.

Resta il fatto che quando ci si incontra, da che mondo è mondo, ci vuole un contatto fisico. Ora, dal Covid/19 in poi, questo non potrà essere scontato. Immagino che, anche a distanza di diversi mesi dalla fine del pericolo di contagio, ci sarà la tendenza a lavare le mani dopo la stretta.

Già cominciano a nascere nuove forme di celebrazione dell’incontro, come per esempio fare il gesto del cuore in segno di amicizia. In un libro che ho letto qualche tempo fa, si suggeriva l’invio immaginario di nuvole di pulviscolo d’oro.

Tutta questa disquisizione sul saluto non è un esercizio sterile. Forse a qualcuno potrà sembrare eccessivo, ma è il simbolo di un possibile passaggio da una condizione umana più primitiva e tribale ad un tipo di umanità legata a una vibrazione che si muove su frequenze più raffinate. Gli esseri di luce dei film che raccontano di civiltà molto più avanti di noi sulla scala dell’evoluzione, hanno emanazioni fotoniche che dalle dita delle mani dell’uno vanno al cuore dell’altro e viceversa. Non hanno bisogno di toccarsi fisicamente.

Certo è un bel salto dal periodo in cui due cavernicoli mostravano i denti come scimmie. Il saluto evolve così: da un messaggio in cui si avverte l’altro di non oltrepassare i limiti territoriali ad un invio di  benedizioni attraverso raggi luminosi.

Il buon contatto

Il che ci conduce a questa considerazione: il toccarsi non è necessariamente contatto, altrimenti anche essere pigiati come sardine in un autobus affollato, potrebbe essere considerato come tale. Il fatto è che dobbiamo cominciare a parlare di “buon contatto”. Potremmo anche dire che il contatto tra due esseri umani è veicolo di espressione e comunicazione da cuore a cuore o, anche, da nucleo a nucleo. Lo stiamo sperimentando adesso che non possiamo avvicinarci ai nostri figli, ai genitori, agli amici. Non possiamo toccarli, baciarli, abbracciarli. Eppure li sentiamo vicini e li pensiamo e ci preoccupiamo per loro con una intensità mai provata prima.

Questo ci conduce ad un’altra considerazione: che spesso la ridondanza della fisicità può appannare anziché facilitare l’autenticità di questa trasmissione tra campi. Le nostre generazioni, almeno quelle cresciute all’ombra delle società capitaliste e tra le classi sociali più agiate, non hanno sperimentato il desiderio struggente dell’altro, come per esempio hanno fatto i nostri genitori e nonni. Avete mai letto con quale intensità si esprimevano nelle lettere?

Oggi la distanza dagli altri viene colmata istantaneamente e l’esperienza dell’incontro non si compie nella sua gradualità.

L’esperienza dell’incontro è sacra, non vuole la fretta. E questo significa anche che abbiamo bisogno di sentire il prima e il dopo dell’incontro. Il prima, quando c’è quel timore di non essere accettati, o quel giusto senso del pudore, per esempio nella sessualità, che ci impone passi gentili per poter entrare nel tempio dell’altro. Il dopo, quando abbiamo bisogno di sentire la separazione e di vivere il passaggio dallo stare insieme al ritornare soli.

Con-tatto: ovvero avvicinarsi all’altro nel rispetto delle sue inibizioni e dei suoi confini. L’affinamento della sensibilità ci conduce a comprendere l’estensione dei confini corporei dell’altro, che molte volte è tale da richiedere ben più di un metro di distanza. Una volta mi è capitato di partecipare alla conferenza di un opinion leader molto conosciuto. Il guru della comunicazione ha pensato bene di rispondere ad una mia domanda con un abbraccio prolungato, pur non avendomi mai visto in vita sua. La cosa mi ha infastidito perchè non mi sono sentita né vista né rispettata. Per essere un Guru della comunicazione…niente male!

Ci sono molti aspetti dell’agire terapeutico che andrebbero consolidati anche nella prassi comune, come per esempio l’estrema cautela e l’ascolto gentile dell’altro e della sua necessità di stare a distanza. Oppure anche la pazienza di aspettare prima di dare un abbraccio: aspettare che ci sia una richiesta e porre sempre attenzione a distinguere il mio bisogno di essere abbracciato dal bisogno altrui.

Il contatto può anche essere semplicemente empatia: toccare metaforicamente l’anima delle persone che incontriamo e permettere che una corrente fluida di comprensione ne scaturisca, anche a debita distanza.

E’ vero, abbiamo bisogno di carezze, ma abbiamo anche bisogno di non essere invasi, e di scegliere come e quando e da chi vogliamo essere toccati.

Ehi, che bello, siamo tutti ok

Una mia cara amica mi ha riferito di avere cambiato senza accorgersi la sua modalità di relazione insieme con la distanza di sicurezza normalmente adottata, quando si è trovata a frequentare un gruppo di consapevolezza corporea all’interno del quale si lavorava sul contatto. Fin qui tutto bene, ma si è resa conto della forzatura nel momento in cui si è trovata a chattare con questo gruppo nella modalità “Ehi, che bello, siamo tutti ok!”

Chiamo “Ehi, che bello, siamo tutti ok” la modalità con cui tutti coloro che fanno parte di un gruppo si relazionano, assumendo le caratteristiche desiderate di gioiosità, radiosità, vivacità e allegria, e mostrando di non avere mai il minimo turbamento nell’avvicinarsi agli altri, né di soffrire di qualsivoglia antipatia, o di avvertire una qualche forma di intolleranza. Tutti sono aperti, comprensivi, affettuosi, e chi non lo è viene visto come problematico.

Così, ci sono situazioni nelle quali ad un messaggio del tipo:”Allora ci vediamo in treno?” La mia amica si è trovata a rispondere :”Bellissimo, così ci conosciamo!!”, senza averne in realtà molta voglia (la prospettiva di leggere un buon libro in solitudine era per lei infinitamente più allettante del doversi relazionare con un perfetto estraneo).  In quella occasione, peraltro, si trovò ad adottare un fraseggio con una coloritura emotiva del tutto estranea alla propria personalità. Aggiungo che si tratta di una persona consapevole, adulta e autonoma. Semplicemente si è sentita trasportata da un afflato comune, che ha fatto emergere il proprio desiderio di essere come gli altri, di essere accettata. Capita nelle migliori famiglie: anche perché essere dei guastafeste o degli antipatici non fa piacere a nessuno.

Il fatto è che anche lei, come me, non crede nella aperture a 360°, ed è abituata ad avvicinarsi agli altri nel rispetto dei tempi fisiologici, attraversando le proprie timidezze e paure, e dando all’altro il tempo di fare altrettanto. Come mai in quei gruppi non ci riusciva? Si è trattato di un test frustrante: trovandosi con persone che cercavano situazioni fusionali, lei non è riuscita ad affermare, in quel contesto, la sua personale possibilità di apertura. A posteriori di è giustificata dicendo che si è divertita ad essere diversa da sè, per una volta. Ma io non ci ho creduto e nemmeno lei…

Seguire sentieri poco battuti

Frequentare un gruppo è un interessante spunto per saggiare l’equilibrio raggiunto tra individualità e socialità, tra essere fedeli a se stessi e aprirsi al mondo. Qualunque sia il risultato di questo incontro, va accettato. E’ questo quello che io chiamo “seguire sentieri poco battuti”. Chi ha un ego molto consolidato ed un accentuato narcisismo tende a non spostarsi mai di molto dalle proprie consuetudini, vuoi che si tratti di hobby, di sport, o di alimentazione. Si tratta di persone che hanno raggiunto un certo grado di potere nella specializzazione che è loro propria, e dunque non avvertono forti motivazioni a discostarsi dalle proprie sicurezze.

Per questo ho sempre cercato , come psicologa, di ampliare di molto le informazioni relative ad ambiti a me poco familiari. Il lavoro corporeo è un’ottimo strumento di lavoro, tuttavia ho sperimentato anche altre Metodologie di lettura dei sintomi e di cura delle psicopatologie. Ogni volta mi sono trovata spaesata, priva delle mie sicurezze ed esposta a figuracce con chi, esperto in questi campi, ne sapeva senz’altro più di me.

Questo non mi ha impedito di sentirmi incuriosita e di arrivare ad aprire ogni volta un po’ di più la mia mente, mettendo da parte la superbia tipica di chi crede di sapere tutto nel proprio settore di conoscenze. Gli psicologi migliori , secondo me, sono quelli che non si limitano ad esplorare le frontiere della propria disciplina, ma si interessano di arte, di letteratura, di musica. Spesso la chiave di volta per entrare nel linguaggio simbolico dell’altro viene trovata pescando nel mondo poetico di una canzone, o di un quadro.

L’estrema specializzazione rende difficile l’attitudine a collegare idee molto lontane e diverse tra di loro, il che è il fondamento della creatività.

Il periodo che ci prepariamo a vivere richiederà una buona dose di flessibilità, apertura mentale, predisposizione alla ricerca di territori nuovi, mai esplorati prima, nonché una buona dose di fiducia in se stessi per reinventarsi.

Concludendo…

Si può anche ipotizzare che, paradossalmente, ci sia nell’inconscio collettivo un segreto godimento legato all’esplosione della pandemia. E che ci sia una profonda paura non del cambiamento, ma del ritorno ad una vecchia normalità, di quel vecchio mondo che resta ancorato a modi di vivere e di pensare che sarebbe auspicabile abbandonare. Per esempio l’individualismo, l’ossessione della visibilità e del successo, la corsa inarrestabile alla conquista di un posto al sole, la ricerca della ricchezza e dell’eterna giovinezza. Dobbiamo però costatare che c’è una aspettativa eccessiva nei confronti del dopo Covid: diventeremo tutti migliori? L’umanità imparerà ad essere solidale? Il capitalismo acquisterà un cuore? Usciremo dalla continua campagna elettorale per vedere finalmente i politici più preoccupati della salute dei cittadini piuttosto che dell’affermazione della propria compagine?

Per ora, queste domande sono destinate a rimanere senza riposta. Come al solito, più che aspettarci dei capovolgimenti radicali di massa, sarà necessario attrezzarsi individualmente con gli strumenti del cambiamento che nascono e si alimentano all’interno della coscienza personale: una evoluzione che dal singolo si irradia alla comunità per il principio dei vasi comunicanti, e non il contrario.